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LA NECESSARIA SEPARAZIONE TRA DIRITTO, ETICA E MORALE

di Oὔτις γέγραφε

È importante, per avere piena consapevolezza della necessaria distinzione tra diritto e morale, iniziare riflettendo sul ragionamento seguito da uno dei maestri del garantismo costituzionale, L. Ferrajoli, nella sua opera “Il paradigma garantista” (Filosofia e critica del diritto penale), relativamente all’etica della giurisdizione penale. Infatti, non sono la scienza in sé (che è un metodo), né le singole scienze o tecniche particolari che devono dire al diritto come giudicare, ma è invece quest’ultimo, attraverso la sua propria metodologia giuridica, a fondare lo schema e l’etica di qualsiasi giudizio e a risultare valido per qualsivoglia portatore d’un sapere tecnico e/o ricercatore di verità empiriche.

Occorre, anzitutto avere contezza che qualsiasi sapere tecnico rappresenta pur sempre un ragionamento di secondo livello rispetto al ragionamento base, fondamentale o di primo grado, costituito dalla logica. Pertanto, in caso di violazione delle regole strutturali di quest’ultima non s’accede proprio al livello tecnico o specialistico del ragionamento stesso.

La metodologia, nonché il rispetto e la correttezza delle procedure seguite nell’ambito delle attività di ricerca empirica, lungi dal costituire inutili formalismi, assicurano la serietà e la ponderatezza dell’attività del ricercatore e, insieme, offrono maggior precisione agli applicatori dei risultati della ricerca, evitando alcune possibili controversie in materia di prova.

Perciò, la metodologia ha sempre in sé un duplice carattere: epistemologico (ossia relativo alla conoscenza) ed etico (ossia relativo alla correttezza e alla diffusione dei risultati della conoscenza stessa). Pertanto, fine di questo breve scritto è quello di delineare per sommi capi, partendo dalla necessaria separazione tra diritto e morale, un’etica del giudizio, valevole per ogni soggetto giudicante e fondata, principalmente, sulla metodologia giuridica, che mantenga necessariamente salda la fondamentale separazione tra diritto, etica e morale.

A tal fine, è necessario risalire all’originaria formulazione della tesi della separazione tra diritto e morale, quale elaborata, agli albori dello Stato di diritto, dall’illuminismo penale, per spiegarne il significato e le implicazioni, in modo da poter tratteggiare la descritta etica del giudizio, che tenga conto della peculiarità dello Stato costituzionale di diritto, quale è la tesi della separazione tra diritto, etica e morale. (Si rinvia ad altro apposito scritto per la spiegazione del “miracolo positivo” – positivo nel senso giuridico di positum- che si realizza attraverso l’elaborazione d’una Costituzione rigida).

Come ci ricorda il Ferrajoli, tratto caratteristico dello Stato di diritto è la tesi della separazione tra diritto e morale; inoltre, tratto caratteristico dello Stato costituzionale di diritto è la tesi della separazione tra diritto, etica e morale.
Con riguardo alla tesi della separazione (sia che si consideri soltanto quella tra diritto e morale, sia che si prenda in considerazione quella più specifica tra diritto, etica e morale) possono, analiticamente, distinguersi due significati, entrambi connessi alla genesi dello Stato di diritto e al processo di laicizzazione e di secolarizzazione del diritto moderno.

Da questi due significati derivano un insieme di corollari che esprimono altrettanti valori etico-politici, i quali, nel loro insieme, formano la specifica etica dello Stato di diritto.

In un primo significato, assertivo, (meta- etico e meta-giuridico), la tesi della separazione tra diritto, etica e morale significa, banalmente, che una cosa è il diritto, altra è l’etica, ed altra ancora è la morale. Ciò equivale a un principio meta-etico e meta-giuridico: da un lato, all’autonomia del diritto positivo (inclusa la Costituzione) dall’etica e, soprattutto, dalla morale; dall’altro, alla soggezione di qualunque soggetto eserciti un potere alla legge al di là delle sue personali convinzioni e meschini conflitti d’interesse, ossia al principio di legalità (il quale, riferito alla Costituzione rigida, assume il nome di principio di stretta legalità) quale norma di riconoscimento generale del diritto non tanto vigente, ma del diritto valido, ossia costituzionalmente conforme, e, in quanto tale, fondamento d’ogni potere.
A sua volta, il principio di legalità e della soggezione del giudice soltanto alla legge esprime i due valori etico-politici fondamentali della giurisdizione nello Stato di diritto e nella democrazia politica. Innanzitutto, esso è il fondamento della certezza del diritto, per cui le norme non sono quelle ritenute volta a volta giuste dalla personale coscienza del giudice (o di chi per lui), ossia dalla sua arbitraria autorità secondo il modello censorio o del giudice ottomano di cadì, ma soltanto quelle prestabilite dalle leggi e, ancor prima, nel rispetto del principio della gerarchia delle fonti, dalla Costituzione, di cui il giudice stesso deve soltanto limitarsi ad accertare le violazioni, secondo la formula Veritas, non auctoritas facit iudicium.
In secondo luogo tali principi rappresentano il fondamento della natura democratica delle fonti del diritto: il diritto non è ciò che appare giusto all’opinione pubblica (etica), né quello che risulta desiderabile in modo contingente secondo la soggettività di taluni o dello stesso giudice (morale). Diritto è soltanto quello convenuto e prestabilito dal Parlamento quale organo rappresentativo della sovranità popolare, conformemente alla Costituzione. (Sul punto, basti il rinvio a quanto si dirà in altra sede)

In un secondo significato, prescrittivo (e, perciò immediatamente etico e assiologico), la tesi della separazione tra diritto, etica e morale significa che il diritto non solo non è, ma non può e non deve coincidere con la morale, né costituirne strumento ancillare. Ciò vale soprattutto per il diritto penale: tal tesi ne limita il ruolo e l’ambito. Infatti, il diritto, soprattutto penale, non dev’essere uno strumento d’affermazione o di rafforzamento della morale. Esso ha una finalità più circoscritta e, al contempo, più significativa, in quanto serve a evitare non già peccati o pretese deviazioni da arbitrarie istanze moralistiche, bensì azioni, concretamente e non astrattamente, offensive nei confronti dei terzi. Perciò, affinché da un fatto scaturisca una conseguenza sanzionatoria, ovvero affinché lo stesso sia preveduto dalla legge come reato, a nulla rileva ch’esso sia deplorabile come peccato, ma occorre soltanto ed esclusivamente ch’esso produca danni o pericoli a terzi.

Se la tesi della separazione in senso assertivo rappresenta il fondamento dello Stato di diritto e del giuspositivismo, la stessa tesi, considerata in senso prescrittivo, costituisce il fondamento del liberalismo giuridico (ossia della tutela giuridica dei diritti fondamentali inviolabili e dei diritti fondamentali di libertà – i quali attengono sempre e solo alla cosiddetta libertà negativa, tendenzialmente priva di conseguenze sulla altrui sfera giuridica, mentre la pretesa libertà positiva può, più propriamente, definirsi come autonomia giuridica-), nonché, in quanto fondamento del principio d’offensività, dell’utilitarismo giuridico.

La valutazione d’un comportamento come immorale non ne giustifica né la punizione né la sanzione; al contrario, questa seconda accezione prescrittiva equivale a un generale principio di tolleranza di quanto, seppur ritenuto maggioritariamente immorale, non produce alcun danno a terzi ovvero produce danni che l’intervento penale non può (e, per sua stessa natura) non deve prevenire: come l’eresia, i resti d’opinione, il tentato suicidio, l’aborto, l’adulterio, l’uso personale di droga, et similia.

Infatti, le sentenze sono non già immotivati verdetti morali, bensì accertamenti motivati di responsabilità: si giudicano soltanto i fatti e non le persone, e si punisce per come si agisce e non già per quello che si è.
Da queste due tesi (una meta-etica e l’altra propriamente etica) discende l’etica del giudizio propria dello Stato costituzionale di diritto e la deontologia professionale degli agenti di potere che vi operano.

Queste due tesi sono alla base tanto del garantismo quanto del rispetto della persona in ogni pratica di potere, sia in quella pratica di potere chiamata legis-latio che in quella, definita da Montesquieu e Condorcet come “odiosa e terribile”, che è la giurisdizione (iuris-dictio).
Un primo ordine di conseguenze: l’esteriorità del diritto e la sovranità della coscienza ossia per un possibile fondamento meta-giuridico dell’habeas corpus e per una possibile fondazione giuridica dell’habeas mentem.

Da un punto di vista complessivo, si deve ricordare, preliminarmente e in via generale, che l’illuminismo penale ha assicurato al requisito dell’effettiva materialità dell’azione criminosa il principio assiologico della separazione tra diritto e morale: basti ricordare le tesi di Hobbes, Pufendorf e Bentham sui limiti del diritto rispetto alla morale, in forza delle quali non tutti i peccati vanno proibiti, esulando dal compito del diritto quello di sanzionare ovvero d’imporre o anche di “educare” a una determinata morale intesa come visione soggettiva e non intersoggettiva del mondo.

Questa tesi trova nel principio dell’esteriorità degli atti suscettibili di proibizione penale e in quello della riserva degli atti interni al dominio specifico ed esclusivo della morale come sopra definita i suoi due più importanti corollari etico-politici. Infatti, se il valore dell’interiorità della morale e dell’autonomia delle coscienze è il tratto distintivo dell’etica laica e moderna, la rivendicazione dell’assoluta liceità giuridica degli atti interni (e che non impattano nelle nostre concrete relazioni con gli altri, attenendo questi ultimi all’etica) è il principio più autenticamente rivoluzionario del liberalismo moderno.

Sotto il profilo negativo, come limite all’intervento penale o punitivo dello Stato, questo principio segna la nascita della moderna figura di cittadino, quale essere umano immunizzato nel suo essere da limiti o da controlli e, perciò, vincolabile soltanto nelle sue condotte riscontrabili e non già anche in quelle “invisibili” o pregiudizialmente presupposte. Ciò equivale alla tutela della sua libertà interiore quale presupposto non soltanto della sua vita morale ma altresì della sua autonomia esteriore di compiere tutte le azioni non espressamente vietate.

Viceversa, sotto il profilo positivo, esso si traduce nel rispetto della persona umana in quanto tale e nella tutela della sua identità, sia pur percepita come moralmente deviante, messa al riparo da pratiche costrittive, o inquisitorie o correttive dirette a violarla o, molto peggio, a trasformarla. Equivale, perciò, alla legittimità del dissenso e anche dell’ostilità verso lo Stato, alla tolleranza per i diversi, cui è parimenti riconosciuta la dignità personale, e, perciò, all’uguaglianza dei cittadini, che possono ricevere trattamenti diversi soltanto per le azioni e non già anche per le idee, o per le loro opinioni o specifiche identità personali.

Perciò, esiste un limite rigido e netto che dal principio di materialità dell’azione proviene alla sfera delle proibizioni penali: “Cogitationis poenam nemo patitur” (Nessuno patisce una pena per il solo fatto d’aver pensato -Grozio e Thomasius parafrasando una massima di Ulpiano, un giureconsulto romano).

In Thomasius (Problema Juridicum: an Haeresis sit Crimen, 1697) troviamo scritto che Nessuno patisce una pena per il solo fatto d’aver pensato di commettere un crimine. Ancora, Hobbes, nel Dialogo tra un filosofo e un cittadino (p.430) ribadisce che: “Può essere che l’uomo nasconda nei recessi del suo pensiero o covi segretamente un peccato, del quale né giudice, né testimonio, né alcun altro ha la possibilità d’accorgersi; mentre il delitto è un peccato che consiste in un atto contrario alla legge, del quale l’autore può essere accusato”. Prosegue Hobbes:”Dubito che esista anche un solo inglese il quale sia pronto ad accettare il fatto che provocare la morte d’un individuo e manifestare in privato la propria intenzione di farlo costituisca una cosa sola”.

In proposito, Schopenhauer dirà che “Lo Stato non può impedire a nessuno di nutrire un costante proposito di omicidio o d’avvelenamento, in quanto esso conosce soltanto il fatto (sia consumato, sia tentato), a causa del suo correlato, ossia il torto sofferto da altri. Tuttavia, il fatto, l’avvenimento è, per lo Stato, l’unica realtà rilevante: l’intenzione, la volontà, non vengono considerati se non nella misura in cui servono a spiegare la natura e il significato del fatto”. Da ciò si desume che esiste e deve esistere un ambito di vita delle persone intangibile dal potere statale, sottratto al controllo pubblico e alla sorveglianza poliziesca e, aggiungo io, altresì agli interessi economico-finanziari degli operatori del mercato: non soltanto le intenzioni e le ideazioni, ma, a maggior ragione, sottolinea Hobbes, gli errori di pensiero e di opinione sono per di più incolpevoli.

Ma, soprattutto, ciò che dal pensiero illuminista viene sottratto alla criminalizzazione e al controllo è l’interiorità della persona nel suo complesso- la sua anima, la sua personalità psico-fisica-, la quale, viceversa, tornerà, grazie all’azione convergente delle dottrine idealistiche, paleopositivistiche (ossia legalistiche), eticistiche, spiritualistiche e statualistiche, a essere nuovamente oggetto di qualificazione, di inquisizione e di trattamento penale e punitivo sotto le moderne etichette di “pericolosità sociale”, “capacità a delinquere”, “carattere del reo”, “tipo criminale”, “infedeltà” et similia.

Afferma invece Pufendorf che: “Il pensiero, l’intenzione di commettere un qualsiasi peccato, il desiderio e i vizi dell’animo” non devono interessare il diritto. In più, Thomasius stabilisce un confine invalicabile all’invadenza dello Stato (ma che, allo stato attuale, può essere esteso anche ai poteri privati transnazionali e sovranazionali del mercato) nella sfera morale, intellettuale, religiosa, sentimentale, il che formerà elemento comune a tutta la cultura politica dell’illuminismo.

In ambito giuridico, costituito dalla materialità dell’azione, sarà difeso fermamente da E. Pessina: contro l’idea legalistica (o, come direbbero i teorici del diritto, paleo-giuspositivistica) che i delinquenti costituiscono una categoria separata del genere umano, egli affermò il principio egualitario per cui: “l’uomo delinque non in quanto egli è, ma in quanto egli opera”.

Sulla base dei due requisiti della dannosità per i terzi e dell’esteriorità dell’azione, la punizione non solo degli atti interni, delle intenzioni, dei vizi e delle opinioni, ma anche d’una quantità innumerevole di comportamenti e d’inclinazioni devianti è stata sottoposta a una critica radicale e dissolutrice.
Eccone alcuni esempi significativi: 1) la bigamia e l’adulterio sono comportamenti solo immorali (o, più correttamente, antietici) e non già delittuosi; 2) l’eresia, i sacrilegi, le bestemmie e in genere le offese alla religione, in ordine alle quali Hobbes, Thomasius, Montesquieu, Beccaria e Voltaire scrivono concordemente che non spetta all’uomo vendicare la divinità e che tutto ciò che passa tra l’essere umano e Dio è di competenza di quest’ultimo; 3) infine, il più importante e attuale, ossia i delitti politici di lesa maestà e i reati d’opinione o di “parole” vennero considerati da Montesquieu come fonti di dispotismo assoluto e d’illibertà, come pure i comportamenti soltanto sospetti o puramente preparatori, i quali attentano alla libertà dei cittadini.

Se il valore politico del principio di materialità risiede nella tolleranza delle differenze e nella tutela della libertà di coscienza, il suo valore giuridico consiste nella sua insostituibile funzione garantista, ossia nel fatto che solo grazie a esso il principio di legalità penale può configurarsi come principio di stretta legalità. A differenza degli stati d’animo o delle inclinazioni, le azioni (tanto commissive quanto omissive) sono effettivi accadimenti empirici (non pregiudizi come pure è stato suggerito), e, come tali, denotabili tassativamente, il cui accertamento è questione di fatto e non di valore e può, dunque, essere espresso da asserzioni verificabili e confutabili.

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