LE CONSEGUENZE GIURIDICHE: GIUDIZI SU FATTI E NON SU PERSONE; DUBBIO, GARANZIE, “PRUDENZA”
di Oὔτις γέγραφε
Sotto il profilo strettamente giuridico, il primo ordine d’implicazioni, conseguente alla separazione in senso assertivo e meta-etico tra diritto, morale ed etica (che costituisce il riflesso del principio di stretta legalità, ossia della soggezione del giudice e dell’autorità amministrativa soltanto alla legge costituzionalmente valida quale criterio d’identificazione di ciò che è proibito, tanto a livello disciplinare-sanzionatorio, quanto, e soprattutto, a livello penale) risiede nel carattere tendenzialmente cognitivo del giudizio, della giurisdizione e dell’amministrazione (ma, relativamente a quest’ultima, soltanto in ambito propriamente sanzionatorio e disciplinare, avendo le sanzioni amministrative e tributarie, a differenza delle sanzioni civili, carattere afflittivo-punitivo e, dunque, strettamente inerente alla persona a cui sono inflitte).
In virtù della conformità a Costituzione e ai principi del diritto, le decisioni giudiziarie, in generale, e le sentenze penali e i provvedimenti amministrativi di natura sanzionatoria o disciplinare, in particolare, costituiscono le sole decisioni la cui validità giuridica e la cui legittimazione etico-politica dipende integralmente dalla loro verità, ossia dalla motivazione come “vere” delle tesi che affermano o negano la responsabilità d’un soggetto, in ordine a ciò che la legge qualifica come condotta sanzionabile o come reato.
In particolare, le sentenze, grazie alla tassativa predeterminazione, da parte della legge, dei fatti che esse devono accertare quali loro presupposti, sono atti fondati su argomenti cognitivi in fatto e ri-cognitivi in diritto, la cui verità rappresenta l’unica fonte della loro legittimazione, tanto etica quanto giuridica (ma mai morale, quest’ultima attenendo all’intima soggettività di ciascuno).
Ne deriva una prima regola deontologica che il principio di stretta legalità costituzionale impone all’amministrazione e alla giurisdizione e che è, al contempo, prima garanzia del cittadino contro l’arbitrio, amministrativo e giudiziario: chi giudica è chiamato a giudicare non già della moralità delle persone, bensì ad accertare i fatti da essi commessi, se previsti dalla legge come reati o fonte di responsabilità. Anche se la legge, come oggi accade, specifica che non si tratta di previsioni aventi carattere disciplinare, nella misura in cui si prevedono conseguenze in assenza di determinati comportamenti, tali conseguenze hanno intrinsecamente funzione sanzionatoria in senso disciplinare.
Proprio in quanto fonda il giudizio circa le conseguenze sanzionatorie (e, dunque, in primis, il giudizio disciplinare e penale) sull’accertamento come veri o come falsi dei fatti giudicati, il modello garantista esclude qualunque valutazione morale o politica circa la soggettività del reo. Infatti, in base a questo modello, il diritto penalizza azioni, non autori, fatti e comportamenti e mai identità e soggetti. In forza del principio di stretta legalità, si può e si deve giudicare e punire solo ed esclusivamente per quello che si è fatto e non per quello che si è, con il divieto assoluto di criminalizzare le persone in virtù del loro status.
Ciò deriva da una mera constatazione, pratica ed etica: soltanto i fatti, non anche la moralità o altri aspetti sostanziali della personalità del reo, possono costituire oggetto di conferma o di confutazione empirica e, di conseguenza, di giudizio. Sotto questo profilo, il modello garantista condivide con l’etica cristiana la massima nolite iudicare, se per giudicare si intende il giudizio sull’identità immorale o malvagia del soggetto e non, come invece è e dev’essere, l’accertamento probatorio e la qualificazione giuridica del fatto da lui commesso.
A ciò s’aggiunge, inoltre, una specifica connotazione etica di tipo laico, derivante all’insindacabilità delle coscienze dal principio di stretta legalità: l’uguale dignità delle persone, riconosciuta ai rei, come ai non rei, e il rispetto dovuto alla loro identità, che è diritto di ciascuno ad essere come è. Pertanto, le garanzie costituzionali, soprattutto in materia penale e processuale, sono, al contempo, garanzie di verità e garanzie di libertà, di dignità e di rispetto della persona umana. Ciò tanto più quanto l’epistemologia garantista accordi ugual valore a tutti gli esseri umani in quanto persone e, in tal modo, escluda, sia sul piano legislativo e amministrativo che su quello giudiziario, valutazioni in ordine al carattere del soggetto, alla sua moralità, alla sua coscienza, al suo ravvedimento o simili, i quali, invece, appartengono all’epistemologia inquisitoria. Infatti, quest’ultima dev’esser ricacciata indietro, tenendo a mente che chi giudica non deve inquisire l’anima dell’imputato, ma soltanto pronunziarsi sulla verità dei fatti a lui contestati.
Ciò è evidente soprattutto nel processo, ma può riportarsi a qualunque professione implichi il giudizio. In un ambito più generale, è siffatto carattere tendenzialmente cognitivo che distingue quello che il Beccaria denominò “processo informativo”, nel quale il giudice è “un indifferente e spassionato ricercatore del vero”, da quello che egli chiamò “il processo offensivo”, tipico del modello inquisitorio, nel quale “il giudice diviene nemico dell’inquisito, punta a estorcerne con ogni mezzo la confessione, in quanto non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quell’inesistente infallibilità che l’essere umano s’arroga in tutte le cose”. Occorre, perciò, rigettare l’andamento circolare del giudizio inquisitorio, che assume come prove credibili i soli fatti che confermano le tesi di partenza e rifiuta il confronto con altri fatti, definiti a priori come non credibili, in quanto suscettibili di smentire quelle stesse tesi.
Un secondo ordine d’implicazioni consegue all’accezione in senso prescrittivo della tesi della separazione, e riguarda specificamente l’utilizzo pubblico della ragione, il confronto pubblico e, più in generale, il rispetto della metodologia e la necessità di tale rispetto quale garanzia, ad un tempo etica e conoscitiva, che massimamente assicura l’accertamento del vero, in uno alla consapevolezza dell’insufficienza di quest’ultima a raggiungere la certezza assoluta. La consapevolezza della necessità dell’osservanza di regole procedurali e metodologiche condivise e sottoposte a pubblico confronto, suggerisce lo schema dell’induzione probatoria in qualsiasi attività di ricerca empirica e poi della motivazione, la quale rappresenta una garanzia di secondo grado, che esprime e insieme assicura la natura cognitiva e non potestativa del giudizio, vincolandolo in diritto alla stretta legalità e in fatto alla prova delle ipotesi formulate.
Il valore centrale del ragionamento nel discorso pubblico dell’etica e del diritto deve condurre a esporre i fatti a controllo per il tramite della loro motivazione. L’esposizione d’ogni decisione pubblica al confronto distingue due opposti metodi processuali e professionali: quello che Francesco Carrara chiamò “convinzione autocratica”, perché basata “sulla mera ispirazione del sentimento e delle emozioni”, e quella che chiamò “convinzione ragionata”, essendone acquisite ed esposte le “ragioni”, sia fattuali che giuridiche. Di più: detta esposizione distingue due opposte concezioni e pratiche del potere: quella del potere (non soltanto giudiziario) come “disumano potere” ossia come il potere puramente arbitrario della giustizia di cadì, contrario all’etica dello Stato di diritto, e la sua fondazione come “sapere”, anche soltanto opinabile e probabile, ma proprio per questo confutabile e soggetto al controllo tanto della pubblica opinione quanto dei singoli. Va da sé che il potere assume il volto, meduseo e orrifico, del dominio ove sganciato dal dato letterale della Costituzione, che, al contrario di quanto creduto da molti, sta lì proprio per limitare il potere stesso e indirizzarlo al perseguimento dei fini riconosciuti e garantiti. Infine, il valore etico-politico del rispetto della procedura e dell’adeguata giustificazione pubblica risiede nel fondare un’attitudine, non solo giudiziaria, basata sulla consapevolezza dei limiti della verificazione fattuale e, quindi, sul valore del dubbio e sulla disponibilità a rinunciare alle proprie ipotesi di fronte alle controprove, il che vuol dire disponibilità ad ascoltare le ragioni dell’altro.
L’accettazione di ciò esprime un atteggiamento di onestà intellettuale e di responsabilità etica, alimentato dalla consapevolezza del carattere sempre soltanto probabilistico della verità fattuale e, perciò, richiesto non solo ai giudici e ai pubblici ministeri, bensì a chiunque sia chiamato a giudicare. Perciò, una volta stabiliti, attraverso una definizione del termine “diritto” i criteri di giuridicità, resta ferma la distinzione fra norme giuridiche e principi morali. Sia consentita un’ultima notazione su questo fondamentale aspetto, in particolare per ciò che riguarda il giudice, ma che, a modesto avviso di chi scrive, dovrebbe informare l’agire etico d’ogni cittadino.
Occorre abbandonare l’illusione di poter raggiungere o d’aver mai raggiunto la verità assoluta: in quanto, come insegna Hume, la certezza oggettiva e la verità assoluta sono impossibili in materia di conoscenza empirica o fattuale. Diversamente dalla verità logica, intrinseca all’essere umano, la verità empirica, tanto delle tesi giudiziarie come di quelle storiografiche e perfino delle stesse leggi scientifiche (o presunte tali), è sempre niente più che una verità (più o meno) probabile. Se è vero che neppure nelle scienze naturali può parlarsi di certezza assoluta, l’incertezza e il dubbio devono informare il costume intellettuale ed etico d’ogni attività di ricerca empirica, tanto più se decisiva per il destino delle persone (come, ad esempio ma non solo, l’attività giudiziaria).
Questa è propriamente la “prudenza” (o precauzione), che, quanto al giudice, vale a fondare quell’abito deontologico fondamentale denominato “giuris-prudenza”, la quale deve sempre lasciare un margine di dubbio circa la verità, tanto d’un’ipotesi accusatoria, quanto d’una previsione sulle conseguenze fattuali di determinate pratiche. Non può promettersi più di quanto possa mantenersi e, su questo punto, occorre essere chiari fin dal principio.
Per essere ancora più chiari: il dubbio ha valenza conoscitiva, in quanto consente di rivedere posizioni e avvicinarsi, con un grado di precisione maggiore, all’accertamento del reale. Tuttavia, esso ha anche una valenza metodologica, che lo collega alla sfera del decidere (e, quindi, etica e giuridica), in quanto consente la sospensione del giudizio nelle more d’una ricerca più approfondita. Viceversa, la prudenza ha sempre carattere etico, attenendo alla sfera decisionale, la quale implica il ripercuotersi della decisione stessa sulla sfera, non solo giuridico-economica, altrui. In quanto tale, essa discende dalla consapevolezza della natura stessa, limitata, della conoscenza umana, ben sapendo che questa può estendersi alla previsione d’un numero limitato di conseguenze pratiche, in considerazione del numero di variabili prese in considerazione; un numero incrementabile a seconda delle concrete circostanze che si rivelano, nel dipanarsi parallelo del processo conoscitivo, come effettivamente pertinenti. Essa non è la “vile” prudenza di leopardiana memoria, ma la dovuta ponderazione e valutazione di tutti gli elementi oggetto della fattispecie concreta, e può, più propriamente, definirsi prudenza di e nel giudizio. Per quanto suggestiva possa apparire l’innovazione tecnologica, vale la pena di ricordare che le stesse macchine, in quanto prodotto umano, patiscono i medesimi limiti epistemici degli esseri che, in concreto, costruiscono le macchine e poi progettano gli algoritmi, e, perciò, il funzionamento delle macchine stesse.
Chiunque giudichi tenga a mente queste parole: occorre non essere affrettati nella valutazione e, soprattutto, non far prevalere mai le proprie personali opinioni o simpatie sull’applicazione rigorosa delle regole della metodologia, che hanno carattere intersoggettivo, a garanzia di tutti i partecipanti alla ricerca e nella disponibilità di nessun decisore, sia esso pubblico o, come più frequentemente avviene, privato e operante nel mercato. Perciò, stabilita una metodologia, il risultato dev’essere con essa coerente e consequenziale, anche nel caso in cui esso contrasti con la propria particolare convinzione: è nella terzietà quale assenza di conflitti d’interesse economici e alterità rispetto ai soggetti interessati (e, quindi, nel tendenziale disinteresse) e nell’imparzialità quale obiettività di giudizio in base a procedure intersoggettivamente condivise, quale presa di posizione a determinate condizioni tra tesi contrapposte(e mai tra persone) che risiedono le garanzie che rendono effettivamente possibile la formulazione di giudizi “corretti”( nel senso più in basso esplicitato; basti il rinvio ad altra sede quanto alla differenza tra imparzialità, quale virtù propria di qualsiasi soggetto giudicante, e neutralità, quale astensione da qualsivoglia giudizio).