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Dignitas et civitas. La distinzione tra libertà ed autonomia.

Il valore primo e fondante dell’essere umano in quanto tale è la sua dignità.
Non soltanto il mero riconoscimento, bensì il rispetto della dignità di ciascun essere umano in quanto dimensione intrinseca e connaturata a quest’ultimo, dev’essere posto a fondamento della civitas: la quale nasce in uno al diritto da questo patto sociale di reciproco riconoscimento. 

La dignità deve, dunque, necessariamente situarsi in una dimensione ancora pre-giuridica: per raggiungere tali fini, funzione propria della civitas deve individuarsi in quella di garantire la libertà, che risulta concetto non già naturale, bensì propriamente civile, derivante dall’appartenenza alla civitas stessa e che si estrinseca nell’ambito di una comunità umana, nel rispetto dell’unicità del singolo in relazione all’unicità degli altri singoli, ai fini di una pacifica convivenza. 

Dunque, la libertà, in quanto prerogativa esclusiva della persona umana, non estendibile in alcun modo – come si vedrà – alla proprietà (viceversa, attinente al concetto di autonomia), si sostanzia principalmente nella pretesa negativa di non interferenza, di non limitazione, di non compressione e di non soppressione.
Questa pretesa, valevole erga omnes e, in primo luogo, nei confronti di tutti i pubblici poteri, può patire restrizioni soltanto in via di eccezione, tassativamente prestabilita, in primis quelle del diritto penale. 

La libertà è facultas agendi, in quanto tale personalissima ed inviolabile: e perciò deve essere tenuta saldamente distinta dal concetto di autonomia. 

C’è infatti una distinzione entro la comune classe dei diritti fondamentali, tra i diritti di autonomia (ad es. quello di acquistare e di disporre dei propri beni, i diritti civili connessi all’autonomia privata, dall’autonomia contrattuale all’iniziativa economica, il diritto di agire in giudizio) e i diritti di libertà (cioè le libertà fondamentali, come la libertà personale, quella di pensiero o d’opinione, di stampa e le libertà di riunione e di associazione). L’elemento strutturale che differenzia l’autonomia dalla libertà è il potere, elemento oscurato da un’altra fuorviante distinzione, che è quella che si suole operare tra “libertà negative” e “libertà positive”

Infatti, ciò che caratterizza i diritti civili di autonomia privata è non tanto il fatto che essi consistono in libertà positive, cioè in facoltà, bensì risiede nel fatto – a differenza di tutti i diritti di libertà, incluse le ricordate libertà attive – che essi consistono in potestates agendi, cioè in diritti-potere.
Qui con “potere” si intende precisamente qualunque facoltà il cui esercizio consista in atti precettivi che producano effetti nella sfera giuridica non solo e non tanto propria ma soprattutto altrui.
Per questo, essendo esercitati essenzialmente attraverso atti negoziali produttivi di effetti anche nella sfera giuridica di altri soggetti, essi richiedono la capacità di agire e la soggezione del loro esercizio a norme che ne regolino forme e contenuti, a garanzia degli interessi pubblici e dei diritti di tutti (ad es., dalle regole sulla concorrenza a quelle sui rapporti di lavori, da quelle sull’indisponibilità dei beni comuni e sulla loro impossibilità di privatizzazione o patrimonializzazione alla tutela della salubrità degli ambienti). 

Al contrario, i diritti di libertà – che possono distinguersi in libertà negative (ossia libertà da) oppure in libertà attive (ossia libertà di, propriamente facultates agendi) – consistono in immunità, cioè in mere aspettative di non lesione o di non limitazione (se non nei modi tassativamente previsti): e sono associati o meno a facoltà, il cui esercizio non è in alcun caso produttivo di effetti giuridici di alcun tipo.
Per questo, essi spettano a tutti, indipendentemente dalla capacità di agire e non confliggono tra loro, né con i diritti sociali (ossia a prestazioni positive da parte dei pubblici poteri), fatti salvi i limiti imposti dal diritto penale (per es. configurazione come reati delle ingiurie o delle diffamazioni o delle associazioni sovversive). In quanto tali, essi si estrinsecano in meri comportamenti e non richiedono norme sulla produzione di questi ultimi che ne costituiscono l’esercizio. 

Il pensiero liberale ha ignorato e mistificato queste differenze di struttura, concependo le autonomie come “libertà positive”, anziché come poteri: e perciò eludendo il problema costituzionale della soggezione del loro esercizio a limiti e a vincoli non soltanto formali, ma anche sostanziali. 

Pertanto, attraverso l’apparato concettuale elaborato dal pensiero liberale nell’età del primo capitalismo, è rimasta occultata o comunque incompresa od ignorata l’asimmetria tra proprietà e libertà, tra i diritti di autonomia (che sono poteri) e le libertà (che non lo sono).
Di più, il paradigma dello Stato di diritto è stato concepito unicamente con riguardo al rapporto tra Stato e cittadino, senza prendere in considerazione i rapporti di potere che si instaurano tra i privati: ciò sul presupposto, evidentemente incompreso, che i rapporti verticali di potestà-soggezione hanno luogo soltanto nella sfera pretesa artificiale, contrapposta alla sfera del diritto privato, propagandata come sfera invece naturale, contrassegnata unicamente da rapporti orizzontali tra  pseudo “libertà”. 

Oὔτις γέγραφε 

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