QUATTRO CRITICITÀ DELLA CONCEZIONE SEMPLIFICATA DELLA DEMOCRAZIA A DIMENSIONE UNICAMENTE FORMALE (prima parte)
Come accennato, possono individuarsi 4 criticità della concezione “riduzionistica” della democrazia che attengono, segnatamente:
1. Alla mancanza di portata empirica e, di conseguenza, di capacità esplicativa (ossia nell’eccessiva indeterminatezza concettuale);
2. Alla scarsa consistenza teorica, derivante da una precisa concezione di carattere filosofico-politico;
3. Alla mancata considerazione del nesso indissolubile tra sovranità popolare, la democrazia politica e le tre classi di diritti fondamentali che possono definirsi sostanziali (ossia i diritti inviolabili, i diritti di libertà e i diritti sociali);
4. Alla mancata considerazione dell’aspetto teleologico della Costituzione, che consente di tracciare, nei limiti del possibile, una linea di demarcazione tra potere (legittimo) e dominio (illegittimo).
LE PRIME DUE CRITICITÀ In questa sede prenderò in considerazione soltanto le prime due criticità.
Quanto alla prima criticità, una definizione di democrazia che ne identifichi i soli connotati formali, ossia le condizioni in presenza delle quali le decisioni politiche costituiscono espressione, diretta o indiretta, della volontà popolare non è in grado di far comprendere la portata della democrazia costituzionale.
Infatti, limitandosi a richiedere che i pubblici poteri siano esercitati dal popolo come che sia, essa ignora o, peggio, rinnega il paradigma dello Stato di diritto. Un sistema democratico ove la sovranità popolare e le istituzioni in cui essa s’esplica non fossero soggette alla legge rientrerebbe nella nozione di Stato assoluto come definita da Hobbes: “Il sovrano d’uno Stato, sia egli Parlamento o uomo, non è soggetto alle leggi civili; infatti, avendo il potere di fare e d’abrogare le leggi, se vuole può liberarsi dalla soggezione abrogando le leggi che lo disturbano e facendone di nuove” (T. Hobbes, Leviatano).
Non solo: tale definizione di democrazia (esclusivamente formale) contrasta a fortiori con lo Stato costituzionale di diritto, entro il quale non è affatto vero che il potere del popolo sia illimitato. L’innovazione introdotta dal costituzionalismo nella struttura delle democrazie è che, in base ad esso, anche il potere legislativo è giuridicamente disciplinato e limitato, con riguardo non soltanto alle forme, a garanzia dell’affermazione della volontà della maggioranza, ma anche e soprattutto alla sostanza del suo esercizio, il quale esercizio è vincolato al rispetto di quelle specifiche norme costituzionali che sono il principio d’uguaglianza e i diritti fondamentali. Anzi, in materia di diritti fondamentali, il principale destinatario delle disposizioni costituzionali è proprio il legislatore; in questa materia, stante la rigidità della Costituzione e l’operatività dei controlimiti, al legislatore, anche e soprattutto d’urgenza/emergenza, nonché a quello sovranazionale, tutto ciò che non gli è dalla Costituzione consentito è vietato.
Quanto alla seconda criticità (scarsa consistenza d’un concetto di democrazia soltanto formale, che intenda essere conseguente a sé medesima), occorre rilevare che un qualche limite sostanziale è invece necessario alla sopravvivenza di qualunque democrazia. Infatti, in assenza di tali limiti, concernenti i contenuti e, quindi, la giustificazione delle decisioni come legittime, una democrazia può non – e, anzi, tende progressivamente a non- sopravvivere.
In altri termini è possibile che, attraverso metodi democratici (la regola della maggioranza) si sopprimano gli stessi metodi democratici: non soltanto i diritti fondamentali inviolabili, di libertà e sociali, ma persino i diritti politici (ossia d’autonomia politica), la cittadinanza, la rappresentanza, il pluralismo politico e la divisione dei poteri (in breve l’intero sistema di regole nel quale consiste la democrazia politica), nonché, nei casi estremi, la capacità giuridica, il nome, l’esistenza stessa della persona e la sua reificazione.
Si fa qui riferimento alle esperienze totalitarie del fascismo e del nazismo, i quali s’impadronirono del potere in forme democratiche (attraverso le elezioni) e poi lo consegnarono “democraticamente” a un capo che soppresse la democrazia.
N.B. Di solito queste obiezioni vengono eluse con la tesi per cui i limiti alla democrazia assicurati dai diritti fondamentali (id est i connotati sostanziali impressi dai diritti fondamentali alla democrazia costituzionale) sono “condizioni” o “presupposti” o “limiti” della democrazia.
Tuttavia, una condizione, ove necessaria, costituisce un requisito essenziale nella definizione stessa del termine (ossia una condicio sine qua non). Come in precedenza detto, questa concezione formale o procedurale s’accredita sulla base dell’esclusiva connotazione della democrazia come auto-governo, o auto-nomia o auto-determinazione popolare, ossia come libertà positiva del popolo di non essere soggetto ad altre decisioni che non siano quelli deliberati da sé medesimo.
Occorre, però, realisticamente, prendere atto che il popolo, in quanto soggetto collettivo, non può che deliberare a maggioranza e, per di più, nella democrazia rappresentativa, sulla sola elezione dei suoi rappresentanti.
Su questo punto bisogna prestare molta attenzione onde non cadere preda di facili confusioni ingenerate da indeterminate metafore: l’equazione tra autogoverno e metodo decisionale fondato sui principi di maggioranza e rappresentanza intesa non già come responsabilità (sponsio al popolo) ma come investitura (se diretta) o delega (se indiretta) si fonda sulla concezione organicistica che configura il popolo come un unitario “corpo politico”, una sorta di organismo, un macro-soggetto, dotato di un’unica ed omogenea volontà, nel quale si fondono e, inevitabilmente, si cancellano le individualità.
Tale tesi, inoltre, prospetta i principi della rappresentanza e della maggioranza, anziché come metodi (per loro natura convenzionali) idonei a individuare i soggetti maggiormente rappresentativi, come le forme “concrete” attraverso le quali s’incarna e s’esprime la volontà generale e unitaria del popolo quale soggetto, a sua volta, unitario ed organico. Viceversa, abbandonando queste insidiose metafore, dobbiamo riconoscere la perdurante attualità della critica mossa da Kelsen a Schmitt.
In Essenza e valore della democrazia, Kelsen si chiede “Che cos’è questo <<popolo>>? Una pluralità d’individui senza dubbio. E sembra che la democrazia presupponga che detta pluralità d’individui costituisca un’unità, tanto più che il popolo come unità è- o dovrebbe teoricamente essere- non tanto oggetto quanto soggetto del potere. Ma da dove possa risultare detta unità che appare poi con il nome di popolo, resta problematico sinché si considerano i soli fatti sensibili. Diviso da contrasti nazionali, religiosi ed economici, il popolo appare, agli occhi del sociologo, come una molteplicità di gruppi distinti piuttosto che come una massa coerente d’un unico e d’un medesimo stato di agglomerazione… E comunque questo Signor Popolo non l’ho mai conosciuto”.
Pertanto, Kelsen, in polemica con il teorico dello Stato d’eccezione Schmitt, scrive che la volontà unitaria del popolo non esiste e la sua assunzione ideologica serve solo a legittimare il potere assoluto della maggioranza e, soprattutto, del suo Capo, e ad occultare la pluralità degli interessi e delle opinioni, nonché del conflitto di classe da cui il cosiddetto “popolo” (nell’accezione organicistica riportata) è attraversato.
Oὔτις γέγραφε